Il sistema mafioso nei canti popolari e nel teatro. Studi e considerazioni in merito
Il fenomeno mafioso fu denunciato socialmente per la prima volta in un teatro, nel lontano 1863, con l’opera di Giuseppe Rizzotto intitolata I mafiusi di Vicaria.
Fu un successo con ben 300 repliche sul territorio, e Rizzotto vestì per la prima volta il mafioso d’una accezione negativa, delineandone la mentalità e facendo, così, un meticoloso lavoro pedagogico.
Per ben comprendere un fenomeno così complesso come quello mafioso, altrettanto importante a livello demologico, storico e pedagogico è il lavoro svolto dall’antropologo e poeta Antonino Uccello che raccolse tra le carceri dei vari paesi dell’entroterra siciliano i canti dei carcerati e dei malavitosi riscontrando non poche difficoltà nella sua fase di ricerca. Per lui, “una serie di apologhi, di canti e proverbi popolari documentano in modo impressionante lo stato di sfiducia verso la giustizia, che sta alla base delle fortune mafiose tra la popolazione.”
Inoltre, prosegue dicendo che “ogni canto, oltre a costituire un documento di primaria importanza, è espressione di un dramma al contempo individuale e collettivo, di cui anche ognuno di noi deve avvertire in parte il peso di una propria responsabilità “. Questi i presupposti della preziosissima fotografia lasciataci dallo studioso siciliano Antonino Uccello.
Dalla lettura del suo volume intitolato Canti di carcere e di mafia ristampato e aggiornato per la seconda volta nel 1974 si evince che il modello mafioso di quegli anni somiglia in modo impressionante a quello attuale. La forma mentis malavitosa è rimasta pressoché invariata. Il canto, visto come una produzione poetica d’enorme valore, qui presentato, ad esempio, non sembra affatto poco attuale
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Sti cammari sirrati su’ canali,
a nuddu amicu meu viju viniri;
chiddi chi mi purtanu lu manciari
sunnu li me’ parenti, e sentu diri:
– Zittu, figghiuzzu meu, nun dubitari,
ca stamu caminannu pri nesciri.
All’ultimu mi sentu cunnannari:
sangu nun mi nn’arresta ‘nta li vini.Queste camere serrate son canali,
nessun mio amico vedo venire;
quelli che mi portano da mangiare
sono i miei parenti; li ascolto dire:
– Zitto, figlio mio, non dubitare,
stiamo sbrigando tutto per farti uscire.
Infine mi vedo condannare:
sangue non me ne resta nelle vene.
Particolare è, l’uso del termine caminannu, con il quale si vuol intendere un fraterno camminare verso il figlio, intricarsi in una situazione alquanto complicata, unitamente al termine zittu, che anticipa appunto la disponibilità di essi a raggiungere l’obiettivo in modi leciti o meno.
Il secondo canto, dettato ad Uccello da Bombaci Pasquale di Canicattini, mostra, invece, un botta e risposta omertoso tra due malfattori. Nella scena, uno dei due è appena stato arrestato
– O tu ca va, e-bbèniri num-puoi,
c’ha fattu vientu prima o puru puoi? –O tu che vai (in galera), da dove non potrai tornare,
hai confessato (“fatto vento”) di già o hai intenzione di farlo?– Tu runa a-ccacciari si ‘uoi
ca vientu nun ni fazzu nné-pprima nné puoi! –Tu bada ai buoi
ché io non ho parlato prima né intendo farlo poi!
Omertà, voglia di impunità, scarsa considerazione delle proprie colpe, sono temi ancora attuali. È una mafia che cambia restando uguale a se stessa.
Tra le pagine, in luce la correlazione tra mancanza di cultura e banditismo. Si fa accenno, infatti, ad uno studio condotto da Danilo Dolci. Tale studio appurava che nella zona di Partinico – Trappeto – Montelepre di 33.000 abitanti complessivamente, dei 350 fuorilegge solo uno aveva entrambi i genitori con la quarta elementare e che proprio in quelle zone si registrava maggior incidenza del banditismo a livello regionale.
Uno dei tanti modi per combattere questo sistema ben incardinato nella società è, infatti, la cultura. Lo stesso magistrato Antonino Caponnetto sosteneva che “la mafia teme più la scuola della giustizia, l’istruzione toglie l’erba sotto i piedi della cultura mafiosa” e non è stato l’unico ad affermare ciò, in quanto, già diverso tempo addietro lo stesso scrittore e poeta Gesualdo Bufalino affermò che la mafia sarà vinta da un esercito di maestre elementari.
Oriana Fallaci, grande giornalista e scrittrice, diede un senso profondo a questa parola così tanto inflazionata quale è la Cultura, collegandola alla libertà, alla dignità ed alla coscienza civile. Per la scrittrice, Cultura significa anzitutto creare una coscienza civile, fare in modo che chi studia sia consapevole della dignità. L’uomo di cultura deve reagire a tutto ciò che è offesa alla sua dignità, alla sua coscienza. Altrimenti, continua, la cultura non serve a nulla.