Recensione: “Nomi di cosa nomi di persona” di Margherita Rimi | L’Altrove
Fermarsi alla lettura di Nomi di cose – nomi di persona è, in un certo qual senso, immergersi nella sfera profonda del proprio essere, è toccare con mano le fragilità di una piccola creatura che quasi abbiamo dimenticato appartenerci.
Eppure è dalle radici che si risolve molto spesso l’equazione personale.
La raccolta poetica si presenta subito molto familiare, a partire dal nome che rievoca un gioco nato tra i banchi di scuola che ha accompagnato svariate generazioni e che ha una valenza doppia in quanto la poetessa tra le pagine “smonta le parole e le rimonta” giocando con esse.
In copertina, un meraviglioso scatto di Letizia Battaglia una donna che ha fotografato per anni la mafia e la sua Palermo quotidiana, in questo caso lo scatto è il pane, quartiere Kalsa particolarmente evocativo e che si ricollega al tema della silloge: l’infanzia.
Il linguaggio è ripulito dal superfluo in maniera egregia, è uno smantellamento della parola che si modella e che riesce ad arrivare a chi legge in maniera diretta ed immediata spacchettando ricordi lontani ed immagini perse lungo gli anni. C’è molta attenzione al ritmo, in alcune poesie si avverte l’influenza di Roversi.
Ma andiamo alla struttura della raccolta poetica. Il suo scheletro è formato da 8 categorie, rispettivamente: Nomi di cose- nomi di persona, poemetto degli zeri, autòs, il compito, sotto il tavolo, più di una lingua, il poemetto della punteggiatura, patologhia, a pizzuddu a pizzuddu.
Si susseguono versi i cui temi sono, ad esempio, la difficoltà degli adulti ad entrare nella sfera comunicativa del bambino (Non sanno parlare/ quando parlano ai bambini/non trovano la lingua/ Pensano di mettere: una virgola/di sistemare con precisione il punto […] Ma i bambini mirano. Là […] Pensano: «non c’è una scuola/ per parlare con i grandi» pag.53), l’affetto materno mancato (Così – chiedevo una carezza, /senza dolore fisico chiedevo una sua carezza. / Chissà se ha mai capito che io le chiedevo una carezza, / chissà se ha capito e/ non sapeva farlo. pag.73). Parecchie sono le frasi “flash” che restano alla mente (Quella malattia che non sanno chiamare è un nome di persona. pag 15), (Nel disegno del corpo il corpo ricompare).
All’interno dei tanti temi trattati vi è anche l’autismo. In questa poesia che vi stiamo per presentare questo disturbo viene visto dagli occhi di una madre il cui figlio resta un campo inesplorato ed innavigabile, specialmente quell’interiorità che il suo occhio non coglie appieno:
I
Il suo corpo legge quello
che passa per la menteE aspetta:
come vogliono venire
le parole che
rivoltano il pensieroII
Nel suo corpo non passa quello
che passa per la menteDove guarda il mio bambino. Cosa guarda
Con chi sta quando non piange
In ultima analisi, definiamo anche completo il lavoro poetico svolto da Margherita Rimi, la quale tra le pagine dispensa citazioni di scrittori, psicanalisti (si veda, ad esempio Winnicott a pag.59), artisti, poeti impreziosendolo con versi d’un plurilinguismo piacevole. Scelta che noi interpretiamo come emulazione di una forma di libertà quasi fanciullesca di esprimersi nella lingua che sovviene alla mente, mescolando in questo caso lingua italiana, dialetto siciliano e lingua francese. La scelta dell’uso del dialetto la vediamo più come una forma d’appartenenza profonda alla propria essenza, si pensi ad esempio all’uso che da generazioni se ne riserva. Il linguaggio dei bambini percorre binari fantasiosi e variegati facilmente riscontrabili nei versi della Rimi che non incorrono mai in banalità ma che anzi sono sempre colmi di significato.
Scorrendo le pagine sembra, insomma, che nulla sia lasciato al caso.
Margherita Rimi, medico specializzato in neuropsichiatra infantile lascia trasparire la sua esperienza sul campo, creando una sorta di cerchio all’interno del quale la poesia completa la sua sfera lavorativa e personale e diventa per il lettore fonte di conoscenza del diverso ed un viaggio introspettivo in se stesso.
Concludiamo, così:
La carezza
Mia madre dà sempre ragione a mio fratello. Il mio fratello
gemello.
Avevamo litigato ancora.
Mi sono messa a piangere infilata sotto il tavolo. E forse
neanche piangevo tanto, un po’ facevo finta. Volevo chiamare
– così- mia madre. – Così- chiedevo una carezza,
senza dolore fisico chiedevo una sua carezza.Chissà se ha mai capito che io le chiedevo una carezza.
Chissà se ha capito e
non sapeva farlo.
“È vecchio ciò che si è dimenticato. E quello che non si può dimenticare, è accaduto appena ieri. L’unità di misura non è il tempo, ma il valore. E la cosa che ha in assoluto più valore, divertente o triste che sia, è l’infanzia.” (Erich Kästner)
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